Ipotesi sul nostro slogan di epoca fascista

In merito ai tristi commenti che ho potuto leggere su qualche blog locale, volevo lanciare qualche ipotesi e spiegare la straordinarietà di quello che è spuntato sotto vernice, e che dopo che si è dato la notizia alla stampa tutti conoscevano dal tempo immemore (e nell’era degli smartphone, nessuno mai una foto gli ha fatto?).
Non commento il classico comportamento locale, un misto di smisurata primigenia in ogni scoperta altrui e la totale distrazione per ciò che ci circonda; anzi, cerco di spiegar a chi sosteneva che non era né un’opera d’arte né che ogni scritta sui muri (“ti o amato, sciaronuccia 4 ever, gioio mi manki, lasciate libbero lo passagghio pelle makkine”) potesse rivelarsi come testimonianza storica.
Alla prima rispondo con una citazione:

” non avrebbero né Nel 1966 mi son trovato a dirigere uno scavo a Ostia antica. Mi ero occupato fino allora di storia dell’arte romana, ma negli strati archeologici non scoprivo certo opere d’arte, bensì una serie di manufatti di uso comune, di cui nulla o quasi si sapeva, e che tradizionalmente veniva buttata insieme alla terra, per «mettere in luce» i monumenti… Ci accorgemmo presto che i manufatti più umili davano informazioni sulla storia economica e sociale di Roma al pari delle opere d’arte, seppure in sfere differenti della vita associata. Avevamo davanti un mondo inesplorato – di cui nella vita accademica si faceva solo eccezionalmente menzione – che ci consentiva finalmente di farci idee parziali, ma precise, sull’ossatura di una società antica e che nel contempo permetteva di reinserire i prodotti dell’arte nell’ampio contesto del lavoro produttivo umano.
A. Carandini, Archeologia e cultura materiale, Bari 1979, p. 30.

Alla seconda baggianata volevo rispondere ricordando che gli antichi romani quando scrivevano “ti o amato, sciaronuccia 4 ever, gioio mi manki, lasciate libbero lo passagghio pelle makkine” sui muri di Pompei non potevano né ora né mai pensare che 2000 anni dopo equipe di epigrafisti avrebbero studiato anche i loro errori nelle loro scritte senza senso.

Spiegherò come la nostra scritta avolese non sia messa lì per caso ma ricorderei che lì era stata scritta perché all’ingresso della città (via Siracusa=ingresso/uscita di Avola); inoltre la ricorrenza della stessa scritta in altre città (ad esempio a Gravedona in provincia di Como); ancora, la vernice coprente (diluita come se si era stati in guerra!) non sembrerebbe compatibile con le vernici supercoprenti moderne, anche se la continua alternanza di caldo e freddo potrebbe aver reso la vernice secca; infine quello che molti hanno dimenticato, potrebbe (occhio al tempo del verbo!) essere inquadrabile con la visita di Mussolini ad Avola avvenuta il 13 agosto del 1937 e che sappiamo (chi sa), che provenisse proprio da Siracusa (se ancora fai il S. Tommaso, vedi foto; rilassati: è solo invidia; try again, you lost!).Mussolini ad Avola

Concludo con un’altra citazione:

Sulle piazze del mercato e davanti ai municipi dei loro paesi, i Siciliani passeggiano avvolti in enormi panni di lana sotto ombrelli fuori moda e contemplano la tiepida pioggia di gennaio. Sono soltanto uomini, in gruppi di dieci, o anche quindici. Donne non se ne vedono da nessuna parte, perché hanno il loro da fare. Quando la pioggia si fa più fitta e vi si mischia qualche chicco di grandine, allora a quegli uomini viene la tentazione di ripararsi in fretta in uno di quei piccoli tabacchini, dove potrebbero anche bere un vermut, sempre che in tasca ci fosse qualche soldo; ma per averlo, bisognerebbe guadagnarlo ed allora non si potrebbe passare più tanto tempo in piazza e dar vita a questo quadro di statica attesa che tanto fa stupire i forestieri: un quadro di uomini che la chiamata del Duce non ha raggiunto. Che cosa la guerra avrebbe potuto togliere a questa gente? Nelle loro stanzette più che arance ed olive non c’erano mai state; e poi c’erano solo per nutrimento pane e pastache adesso sono diventati più scuri. Molto poco quindi… Le frasi vigorose del Duce sui muri delle case, sbiadite dalla pioggia invernale, sono guardate distrattament, come fanno i bambini disattenti nello sfogliare un libro illustrato che non capiscono.
Theo Gorlitz
(riportato da T. Marcon in I Siracusani, n. 35, Siracusa 2002, p. 18)